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Fri, Oct

«Chi chiude la scuola in nome della “sanità di stato” avrà sulla coscienza la morte educativa di un’intera generazione». La lettera di Giovanni Ceschi

In Trentino
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La scuola è valore supremo. Tra i tanti danni del Covid c’è anche quello d’avere sdoganato la peggiore retorica di sempre sulle nuove tecnologie applicate all’insegnamento, travestendo l’emergenza d’innovazione.

E così la pandemia sta diventando, senza neppure bisogno di ragionarci sopra, un’imperdibile occasione. Per i colossi del web che – l’avranno notato insegnanti, studenti e famiglie – si sono affrettati già in primavera a rendere temporaneamente gratuiti i loro applicativi di videoconferenza e supporto alla didattica online, nel chiaro intento di fidelizzare l’utenza per quando l’emergenza si sarebbe trasformata in routine. Per quando cioè i professionisti dell’istruzione sarebbero stati disposti a ritenere accettabile, se non preferibile per prudenza o inconfessabile comodità, l’idea di collegarsi da casa per “insegnare” anziché recarsi in un’aula fisica dove incontrare davvero i propri allievi. E quel momento perlopiù è già arrivato.

 

Imperdibile occasione, il Covid, anche per gli istituti di ricerca didattica sparsi sul territorio nazionale e provinciale: quando mai ricapiterà di poter vendere la capacità di smanettare su un computer come unico mezzo per tenersi in contatto con gli studenti? E di preparare gli insegnanti a farlo – già che ci siamo – in modo innovativo, magari “flippando” la classe e mettendo a frutto le più evolute tecniche di personalizzazione della didattica? Certo, favoriti da un corpo docente sensibile da sempre alla retorica della scuola come missione, forse per la frustrazione di un lavoro che presuppone competenze e strategie da libero professionista pur essendo inquadrato nei ranghi del pubblico impiego.

 

Perché una categoria di lavoratori appena appena più consapevole della propria rilevanza strategica nell’economia materiale e ideale del Paese (in pratica, ogni altra categoria) prima di cominciare a discutere di mezzi avrebbe posto il problema del vincolo contrattuale e dell’efficacia operativa. Anzitutto: il contratto dei docenti prevede forse l’insegnamento a distanza, davanti a un computer, ripresi da una telecamera e proiettati, durante la lezione, nelle case degli “utenti”, in balia di chiunque possa e voglia registrarli per diffondere sulla rete, senza effettiva tutela, il loro lavoro? E poi, quel che più conta: una simile modalità, foss’anche generalizzata, resa obbligatoria e usuale, è in grado di surrogare quella tradizionale, fondata sulla relazione personale dell’insegnante con i propri allievi, un tutt’uno di contenuti, sguardi, intesa razionale, emotiva e affettiva? Perché se la risposta è no – come la stragrande maggioranza di chi l’ha provata dichiara senza esitazione – beh, allora non si potrà certo addurre il diritto costituzionale all’istruzione per affermare la necessità di un così inefficace e triste surrogato solo per assenza d’alternative.

 

E qui veniamo a un altro portatore d’interessi, per il quale il Covid è un’imperdibile occasione: il sistema-scuola inteso come pubblica amministrazione, che difende (fa il suo mestiere, in fondo) il diritto dell’ingranaggio burocratico a funzionare, a distanza o in presenza che sia. Perché il lavoro dell’insegnante – lo si è visto in tempi non sospetti, cioè immuni dal Covid e dall’appannamento della razionalità che esso reca con sé – il lavoro dell’insegnante è da qualche decennio omologato a un pubblico sportello, che va tenuto aperto in quanto la sua funzione è ormai in minima parte educativa e formativa, in ben più larga misura certificativa, accuditiva e surrogante di compiti tutoriali della famiglia. Al netto di ogni retorica, la pandemia sta dimostrando nella forma più icastica e immediata per l’opinione comune che gli insegnanti null’altro sono che impiegati: come un certificato lo posso ritirare a uno sportello fisico o informatizzato, così una lezione la posso seguire in classe ma anche – se l’emergenza lo richiede – in tutta comodità e sicurezza dal computer di casa. In fondo, che differenza c’è? Se per giunta è scuola più moderna…!

 

Poi, si sa, c’è il rovescio della medaglia: lo schermo di un computer non solo non potrà mai sostituire un insegnante in carne ed ossa, ma neppure offrire un accudimento a bambini e ragazzi minorenni, che non possono stare a casa da soli mentre i genitori lavorano (qualora non siano essi pure adepti dello smart working): e allora, per fasce d’età fino all’adolescenza è necessario che la scuola stia aperta finché possibile, ma non proprio per la sua insostituibilità educativa e didattica; per i più grandi si può andare a distanza al 100% senza troppo pensarci.

 

Si dirà: c’è un’alternativa? Ritengo di sì, e vengo alla parte più concreta e propositiva: quella di non considerare la scuola come un segmento della società civile sacrificabile in proporzione diretta con la mobilitazione di persone che essa inevitabilmente comporta, esattamente come ogni altro settore lavorativo e produttivo, ma come il cuore pulsante del Paese: come l’unica speranza di futuro che abbiamo, che non si può fermare se non al prezzo di privarci di speranza nel futuro.

 

Si è detto – per carità, talora anche con intenti demagogici e populisti – che a chiudere ristoranti e locali pubblici non moriremo di Covid ma di fame. Ebbene: a chiudere la scuola, rinunciando ad adottare prima di tale inaudita scelta tutte le strategie possibili di pianificazione (orari d’ingresso e d’uscita scaglionati, non solo dentro gli istituti ma anche in una strategia di rete; flessibilizzazione dell’orario in presenza dei docenti – richiesta legittima per il tempo dell’epidemia – e potenziamento vero dei mezzi pubblici; screening epidemiologici a tappeto della popolazione scolastica), a ritenere sacrificabile la quotidianità scolastica dei nostri figli non moriremo di Covid ma di povertà ideale.

 

Che non è solo ignoranza, si badi: è incapacità di giustificare alle nuove generazioni il senso di un ideale se non più importante almeno più alto dell’integrità fisica, posto che davvero questa sia in gioco e non una pur comprensibile, e strumentalizzabile, ansietà collettiva.

In molti Stati europei l’hanno compreso, e la scuola è giustamente – simbolicamente – l’ultimo baluardo di normalità. Lo sia anche in Italia: si chiuda tutto, tutto davvero, prima d’essere costretti a mandare i nostri studenti a distanza.

 

Chi chiude la Scuola in nome di una generica “sanità di Stato” avrà sulla coscienza, alla lunga, la morte di fame educativa di un’intera generazione. Perché ci sono studenti, e sono la maggioranza, che di scuola hanno davvero fame e ci potrebbero chiedere, un giorno, perché non abbiamo fatto l’impossibile per garantire, prima di ogni altro, questo loro diritto.

 

 

Giovanni Ceschi

Docente di latino e greco al Liceo “Prati”, Presidente del Consiglio del sistema educativo